No, la verità è che amo pavoneggiarmi. Sarà che quando ho tentato personalmente e per la prima volta di portarmi a casa un simile gioiello non c’erano, sparsi per mezza Europa, gli importatori che ci sono ora. Sarà che un arcade cabinet importato dal Giappone era – un po’ per tutti i miei “colleghi” - il sogno perverso ed irrealizzabile del maniaco dell’arcade gaming estremo. Sarà perché avrò consumato un mouse, ai tempi, sfogliando pagine e pagine di immagini scattate in qualche game center di Akihabara, raffiguranti dozzine e dozzine di macchine da gioco che, agli occhi dei profani, potranno sembrare un abominio a metà strada tra una lavatrice ed un televisore anteguerra. Sarà per tanti motivi e probabilmente non potrete comprendermi, senza aver mai frequentato le ormai estinte sale giochi, ma posso giurare davanti a Dio di aver quasi perso il sonno, tanta la frenesia per l’attesa del mio “cucciolo”, comprato da un losco importatore francofono ormai diversi anni or sono. Vedendo giungere il mezzo del trasportatore che aveva in custodia il prezioso carico, mi pare di ricordare, quasi mi lanciai dal balcone pur di accorciare le distanze tra me e quello che, per gli anni a venire, sarebbe stato il mio fedele compagno di giochi.
L’idea di possedere non più mediocri conversioni per console (che oggi saranno anche molto fedeli all’originale ma che, andando indietro con la memoria fino a Super Famicom e Mega Drive beh, c’era giusto da accontentarsi e vivere sereni) ma il coin op dentro casa. E non il banale ed anonimo cabinato in legno tipico delle nostre polverose sale, ma proprio i cabinati così come concepiti da Sega, Taito, Namco o Capcom (definiti “candy cabs” dato che, il più delle volte, sono color frigorifero Indesit o giù di lì). L’inseguimento filologico del setup arcade perfetto. Il massimo che possa desiderare l’amante del beat’em up o dello sparatutto spaziale. La postazione da gioco imbattibile. Altro che Neo Geo e “portiamoci a casa i giochi tosti”. Qui si tratta di fare sul serio: imbucare la moneta da 100 yen, spegnere il mozzicone di sigaretta nel posacenere brandizzato Taito (peccato aver smesso), ottenere un nuovo score e lasciarlo alla storia inserendo il proprio nome a schermo ridotto a tre, incomprensibili, lettere.
Foto scattata con smartphone caccoso al momento della inaugurazione. Gira su schermo il possente Guwange (Cave, 1999). Per problemi di spazio il pargolo è ubicato tristemente in abitazione genitoriale, in attesa di definitiva sistemazione.
E se come me, collega, anche tu ami lo shoot’em up classico, non puoi non desiderare un Taito Egret II. Per una serie di motivi che, in sintesi, possono essere riassunti così:
- È l’unico ad includere un meccanismo di rotazione semiautomatica per orientare lo schermo in verticale (alcuni giochi, come saprai, lo richiedono) senza che ti fuoriesca la spina dorsale dalla schiena per lo sforzo;
- Lo schermo supporta nativamente le basse risoluzioni a 15 khz (CGA) tipiche delle produzioni bidimensionali (anche se il sottoscritto ha ritenuto di sostituire l’elettronica con una che, in automatico, permettesse di collegare anche sorgenti in vga così da fruire, all’occorrenza, anche di titoli più recenti);
- E’ facile trovarne di già predisposti con un layout a sette tasti per giocatore che sembra niente ma che, fidatevi sulla parola, è logisticamente sensato per chiunque voglia giocare sia con produzioni Capcom che Snk senza dover staccare e riattaccare fili, ripetutamente, sotto al control panel.
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